9 maggio 2018
In un comunicato del 7 maggio, Pablo e Benito Trangol Galindo hanno esposto la loro valutazione riguardo la condanna che hanno ricevuto dal Tribunale Orale Penale di Temuco il 27 aprile scorso, nella quale si stabilisce la pena di 10 anni di carcere a tutti e due.
I fratelli Pablo e Benito Trangol Galindo erano stati incarcerati, sotto misura cautelare di carcere preventivo, assieme al loro fratello Ariel e ad Alfredo Tralcal Coche, quando vennero fermati dopo due ore l’incendio di una chiesa evangelica nel mese di giugno 2016. Il loro fermo era scattato dopo che i carabinieri avevano fatto un controllo al furgone nel quale viaggiavano, per poi comunicargli che venivano fermati per essere sospettati di esser autori dell’incendio. Da quel momento sono stati prigionieri nel carcere di Temuco, in assenza di prove che giustificassero l’accusa.
Secondo la Procura, gli autori dell’incendio dell’immobile religioso avevano corparso combustibile sui lati del edificio e poi spararono. Tuttavia, non sono state trovate tracce di combustibile né di polvere da sparo sui corpi o sui vestiti degli imputati. Non sono state neanche trovate tracce di questi componenti nel furgone nel quale viaggiavano. Senza possedere nessuna prova che li incolpasse, il Tribunale accettò la richiesta della Procura affinché 7 testimoni potessero dichiarare senza rivelare pubblicamente la loro identità e in base alle loro dichiarazioni si stabilì la colpa per questi due comuneros.
Nel loro comunicato denunciano il fatto che i giudici del Tribunali li abbiano condannati per essere mapuche e non per il possesso di prove. Sottolineano anche l’esistenza di una contraddizione, perché la loro detenzione è stata dichiarata illegale, ma sono state validate tutte le presunte prove ottenute dopo la loro detenzione. Oltretutto, affermano che i testimoni, che li hanno nominati la prima volta, si sono contraddetti nelle loro prime dichiarazioni in tribunale.
Finalmente, hanno fatto una chiamate alle comunità mapuche e a coloro che solidarizzano con la loro lotta perché li aiutino a “controbattere a questa condanna ingiusta” con il fine di “dare una risposta ai grandi imprenditori e latifondisti”.
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